Capitalismo in crisi: la bomba a orologeria

“I fondamenti della nostra economia sono solidi” ha dichiarato John McCain, il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali statunitensi, mentre affrontiamo la più grande crisi finanziairia dal 1929. Si tratta di una crisi capace di scuotere i fondamenti stessi del sistema capitalista. Ma i suoi difensori provano di tutto per salvarlo, investendo miliardi e miliardi e trascinando noi lavoratori nella loro sconfitta, gettandoci nella miseria.

Christel Dicembre, lotta

Subprime e caro vita: crisi generalizzata

La crisi è cominciata un anno fa sotto l’aspetto di tracollo puramente finanziario le cui radici affondano nella crisi dei subprimes, mutui ipotecari a grandi rischi realizzati da società di credito Usa. Nell'incapacità di rimborsare i loro prestiti, centinaia di migliaia di famiglie americane si sono trovate senza tetto. Ma, più grave per i capitalisti, numerose banche si sono trovate con debiti colossali rischiando il fallimento.

Questa crisi finanziaria ha subito avuto conseguenze drammatiche sull'economia reale e, ancora una volta, sono i lavoratori a pagare a caro prezzo. La crisi finanziaria si è rapidamente propagata ad altri settori come l'alimentazione o l'energia (che ha attirato molti capitali speculativi: 81% dei contratti petroliferi al Nymex, la borsa delle materie prime a New York, è nelle mani dei speculatori) che hanno contribuito all'inflazione che conosciamo da molti mesi.

In seguito, la crisi si è estesa alla produzione stessa; immerse nella tempesta, una serie di imprese pubbliche e private ha dovuto “risanare”. In Spagna 300mila posti di lavoro sono stati eliminati soprattutto nel settore edilizio, in California 22mila funzionari sono stati licenziati, alla FIAT da settembre la maggior parte dei lavoratori sono stati messi in cassa integrazione. Altri licenziamenti sanguinari sono da prevedere per esempio in un'impresa come General Motors (Opel, Saab, Daewoo, Cadillac, ecc.) che ha conosciuto una perdita di 15 miliardi di dollari solo per il secondo trimestre del 2008, certamente non rimarrà a braccia conserte vedendo i suoi profitti abbassarsi ma tenterà di ridurre i suoi costi attaccando i salari e/o tagliando i posti di lavoro.

Se la crisi si fa già fortemente sentire in Europa e nel mondo occidentale, la situazione è ben più drammatica nei paesi neocoloniali, come in Africa dove si succedono le rivolte e le sommosse per il cibo.

I vecchi rimedi non funzionano più…

Nel boom del dopo guerra, la crescita fu molto forte ed i vantaggi sociali acquisiti dai lavoratori, di consegenza delle lotte, aumentarono considerevolmente. Quando la crisi é scoppiata, a metà degli anni `70, i capitalisti spiegarono ai lavoratori che occorreva limitare gli acquisti sociali a favore della sopravvivenza dell'economia.

Particolarmente, nel corso degli ultimi trent'anni, quando una crisi spuntava alla porta dell’economia e che l'ombra della diminuzione dei loro profitti si profilava o che li volevano semplicemente aumentare, i capitalisti hanno sempre avanzato la necessità per i lavoratori di fare sacrifici - che occorreva stringersi la cintura tutti insieme ed accettare tagli e flexibilizzazione del lavoro, ecc.

Oggi non è più possibile: la crescita instabile degli anni `90 - 2000 non ha avvantaggiato la maggioranza dei lavoratori. La crescita, infatti, si è realizzata non con un progresso generale della società ma con lo sovrasfruttamento dei lavoratori stessi, garantito sia dalla precarizzazione del lavoro, sia dall'arrivo di una nuova manodopera a basso costo e sfruttabile a volontà.

I ricchi e i loro bambini per primi….

Oggi il palazzo è in fiamme ed i capitalisti intrappolati dentro chiedono aiuto allo Stato. I governi capitalisti, dopo molte esitazioni per timore che il mito del libero mercato come unico sistema viabile sarebbe potuto crollare, hanno risposto favorevolmente facendo chiaramente passare il messaggio: salviamoci, ma i ricchi ed i loro bambini per primi!

Il panico dei capitalisti si dimostra con la valanga di ‘nazionalizzazioni’ delle banche e delle istituzioni finanziarie. Sotto governi fedeli al capitalismo, si ricorre alla nazionalizzazione soltanto quando gli interessi più determinanti della classe capitalista sono in gioco, come oggi negli Stati Uniti ed altrove. E ciò avviene di norma soltanto dopo che i proprietari privati hanno ammucchiato profitti personali giganteschi dalle società in gioco, spesso gestendo male le società, che poi finiscono letteralmente per affondare.

Sotto controllo pubblico, queste società sono allora dirette da individui ricchi legati idéologicamente ad un sistema basato sulla proprietà privata, il mercato libero ed i metodi di gestione capitalisti piuttosto che sulla proprietà collettiva, l'economia pianificata e la democrazia. La nazionalizzazione è anche considerata come “un male provvisorio”, cioè le imprese devono tornare nelle mani del privato una volta ristabilite.

Tutto ciò è molto distante dal modo in cui la proprietà pubblica funzionerebbe sotto un vero governo comunista, dove le principali imprese (i settori chiave dell'economia come l'energia e le banche) sarebbero gestite democraticamente sotto il controllo dei lavoratori in modo permanente. Le imprese così nazionalizzate vivrebbero in funzione degli interessi della maggioranza della popolazione - i lavoratori.

Come vediamo, questi governi capitalisti non esitano a spendere milioni di dollari per salvare delle imprese ed il portafoglio dei loro azionisti ma allo stesso tempo continuano a ripetere che le casse sono vuote e che, nonostante il ribasso del potere d'acquisto, aumenti salariali sono impossibili. Hanno chiaramente mostrato chi desideravano salvare: lo Stato-vigile del fuoco viene a tirare fuori dalle fiamme le multinazionali ed i loro azionisti lasciando i lavoratori a bruciare.

C'è una via d’uscita?

Alcuni economisti capitalisti sognano che la Cina venga a salvare il mondo della crisi e/o che prenda il posto degli Stati Uniti come leader economico mondiale. Dall'inizio della crisi, la produzione trova sempre meno sbocchi. La Cina, ha un'economia soprattutto diretta verso l'esportazione e, nonostante le dichiarazioni degli ammiratori della “Repubblica Popolare”, il livello di vita dei cinesi aumenta soltanto di poco. Inoltre, la Cina non è stata risparmiata dalla crisi e le imprese cinesi procedono anche loro a numerosi licenziamenti.

La crisi, quindi, dovrebbe generare forti tensioni tra i differenti paesi, tra i vari imperialismi ma anche tra classi sociali. Approfondendosi, la crisi intensificherà anche la lotta per il controllo delle risorse essenziali e provocherà un ritorno al protezionismo, cioè ogni Stato dovrà più che mai contare soltanto su sé stesso e dovrà dunque controllare in modo sicuro le risorse come petrolio, gas ed acqua.

Ma il ritorno ai metodi protezionisti non risolverà la questione e genererà la rabbia di milioni di lavoratori che subiranno in pieno gli effetti della crisi generati dai capitalisti. Se lo Stato è capace di nazionalizzare per preservare i profitti degli azionisti, perché non può nazionalizzare per preservare le occupazioni dei lavoratori?

Che conseguenze per noi lavoratori e studenti?

È chiaro che le prime conclusioni tratte dai lavoratori saranno di richiedere allo Stato risposte concrete ai loro problemi concreti. Come per Alitalia o la FIAT, i tagli a scuola e sanità, la disoccupazione andrà a crescere. La precarietà del lavoro aumenterà buttando milioni di famiglie nella povertà. Questo rappresenterà un atto d’accusa cruciale per il capitalismo del libero mercato, dove un pugno di miliardari può rovinare la vita di milioni di famiglie.

Lo Stato difende gli interessi dei capitalisti e non quelli della maggioranza della popolazione. Solo una società dove la produzione è orientata e gestita dai lavoratori può permettere di soddisfare i bisogni di tutti. Solo il socialismo può fare uscire l'umanità delle crisi, delle guerre e della miseria.

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